I ritratti nascono per inquietare. Portano con sé l’hybris di chi ha spinto l’atto quotidiano di osservare l’altro a un eccesso irriguardoso, che profana l’interiorità. E se l’eccesso del vedere ha un metodo, esso coinvolge anzitutto chi lo pone in atto, costringendolo a sondare per prime le misure di sé e delle proprie oscurità. Allora, che si ritragga una giovane donna o un maturo poeta, che lo si faccia su due metri o venti centimetri di tela, con uno scatto fotografico o un pennello, poco cambia. L’idea che si rincorre è sempre una: quella di un’impronta, che nel momento in cui si fissa –divenendo forma– acquisisce un valore assoluto, autonomo rispetto ai percorsi che l’hanno generata. Che poi questa forma/orma trasudi ancora un torbido umore di vita –fisica e psichica– non è affatto scontato; ma può accadere, se l’artista che la suscita ha mangiato i profumi e la polvere di molte strade… Se un artista come Paolo Cervi Kervischer all’hybris dello sguardo associa la sfrontatezza tecnica ulteriore di declinare lo spessore mentale in stratificazione pittorica.
Paolo Cervi Kervischer © 2008 - Valid: CSS, XHTML 1.0 - Powered by Fucine.IT - Credits