Mi dice che dal minuscolo poggiolo della sua casa triestina, ogni tanto, si mette seduto a osservare la città.
Ad un altro replicherei che da quello stretto scorcio di via Belpoggio c’è poco da vedere, se non abbandonando lo sguardo in direzione del porto, oltre la quinta dei palazzi decò. Ma trattandosi di Paolo Cervi Kervischer ho la consapevolezza che ogni pertugio gli può essere sufficiente ad alimentare produttive esplorazioni; d’altronde una piccola finestra sulla Baixa, in una Lisbona che con Trieste aveva e mantiene non poche assonanze, già bastò al Bernardo Soares di Pessoa per schiarire di luce diurna il suo viaggio tutto mentale a costruire una ”geografia della nostra consapevolezza di noi stessi”.
E proprio intorno a un’ansia di consapevolezza ruota tutta la pittura di Cervi, su cui preme, urge anzitutto un bisogno di confrontarsi con la memoria, ripercorsa quale necessario cammino di disciplina (estetica ed interiore insieme) da compiere per chiarire i possibili sensi del proprio agire.
Ne emergono i ricordi di consonanti espressioni di turbamento, ma anche della breve visione d’un irreggimentarsi delle pulsioni: la Vienna secessionista e l’espressionismo, la purezza formale neoplastica e la sua straziata, inappellabile negazione in Bacon. E innervata alla memoria artistica è quella letteraria, con i versi di Verlain o Rimbaud, Rilke o Baudelaire, che si dipanano sulla tela o nei più recenti ritratti – creano una sorta di silenziosa iscrizione dedicatoria ai margini dell’opera, defilandosi in una diversa dimensione spaziale.
In questa trama di raccordi e nel loro farsi pittura, peraltro, ricordo rarissimi momenti di vera e propria citazione, concentrati in poche opere; non è in essi, infatti, che si consuma il rapporto di Paolo con la storia, nei cui territori sa di dover vagare solo per avvicinarsi – attraverso strade indirette, ma forse le uniche possibili – alla comprensione delle sue e nostre contraddizioni di oggi. Vale questo anche per i ripetuti, fisiologici riferimenti a Mondrian, che parlano d’un bisogno di ordine, interiore ed espressivo, pur nutrito di una disperata consapevolezza della sua fragilità. Dopo le opere dei secondi anni novanta, in cui il richiamo è leggibile nella ripresa iconica di specifici stilemi, dalla serie di Portale poetico fino agli ultimi dipinti è solo una tendenza a strutturare geometricamente la composizione che scorre sottopelle, celata ed essenziale... Ma viene immediatamente negata, dall’aprirsi di squarci d’un arancione che è l’orma di Bacon, e dall’impulso a sconvolgere con tensioni improvvise gli equilibri raggiunti, ad espellere il fiato fino a comprimere l’addome, a non cessare di interrogarsi sulla propria ed altrui sofferta precarietà.
Quanto alle parole, ai versi, poco importa che siano leggibili: essi si traducono in appigli visivi, in grafemi-guida nella risalita dal profondo. Sono i fili di una ragnatela, tessuta con foga senza mai perderne il controllo, con cui Cervi tenta di catturare qualche sillaba di autenticità dai sedimenti ancor fluidi del suo – ma solo suo? – vissuto; e con la quale si adopera nel contempo per tenere uniti i vari piani della ricerca: l’astratto e il figurativo (per quanto possono ormai valere tali definizioni), sulle cui superfici le lettere colano come sgocciolature di colore raggrumate in segni che sono metafora di suoni, ancor prima che veicolo di significati.
Parola e immagine si coagulano talora nel ritratto del poeta, ma ogni ritratto è con altrettanta ragione il volto dei Corpi vaganti, vacanti di Cervi Kervischer, delle ombre fluttuanti nel limbo perimetrale di pareti e pavimenti delle sue installazioni pittoriche, o prigioniere di un non luogo catodico (come nella recente installazione video realizzata a Pola, dove impronte fotografiche e scrittura si abbarbicavano al muro precarie quanto le certezze, gli equilibri interiori angosciosamente cercati dalla modella nel monitor).
Ancora più esplicitamente che nelle opere astratte, nei ritratti “la presenza della forma [...] permette l’esercizio della memoria”. Nulla garantisce della salvezza, ma almeno si determina lo spazio per una ricerca; tappa ulteriore di un percorso che nei dipinti di Cervi è costellato di parole, figure (proiettate nel ventre di una sessualità disperata, che sa di non poter contare che sulla propria immanente e fragile fisicità), aree planari, colature... In una sovrapposizione a scorrere che è proiezione del reale stratificarsi dell’esperienza, e pretende di venire indagata perché non vada perso negli interstizi del tessuto pittorico e temporale un pure improbabile senso di quanto ci conduce, quotidianamente, fino a lì.
Una ratio che per un pittore come Paolo non risulta, credo, distante da quella cui alludeva un secolo fa Georg Simmel, quando affermava che “a parte il volto umano, non vi è al mondo nessuna figura che permetta a una così grande molteplicità di forme e di piani di fondersi in un’unità di senso così assoluta”.
Un’arte simile, pur senza perdere la gioia della propria fisicità, non può vivere in superficie, sguazzando nelle trasparenti e insipide acque distillate delle vetrine di galleria o nel compiacimento autoreferenziale di troppe biennali, spesso assimilabili alla pochezza di altre realtà che un poeta smascherava già trent’anni or sono senza soddisfazione alcuna: “Manovre, congiure, intrighi, intrallazzi di Palazzo passano per avvenimenti seri. Mentre per uno sguardo appena un po’ disinteressato non sono che contorcimenti tragicomici e, naturalmente, furbeschi e indegni”.
Un’arte simile vive di turbamento, e i grandi ritratti di Cervi Kervischer inquietano. Inquietano nella loro riproposta di quella che è la poetica di Paolo da sempre: nello sdoppiamento di questi dittici ogni volto è di fronte allo spazio oscuro in cui si annida la ragione della sua esistenza o la prova della sua completa assurdità.
Nel coraggio di esplorare questo dubbio, la condizione del pittore e di ogni uomo e donna che ci fissa dalle tele è semplicemente quella di un artista, ovvero di una persona, che non si accontenta delle prospettive virtuali di “un oggi arrangiato”.
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