Come nasce un’opera d’arte? Con la premessa che non esiste una risposta univoca a questa domanda, non c’è modo migliore di saperlo se non quello di attingere direttamente alla fonte dell’opera stessa, ovvero l’artista. Tra un bicchiere e l’altro, il pittore triestino Paolo Cervi Kervischer ha rivelato alcuni degli ingredienti da lui utilizzati per la realizzazione delle sue opere pittoriche. Ingredienti che valgono solo se posti accanto a un’esperienza acquisita nel corso di tutta una vita artistica, a cominciare dallo studio con Emilio Vedova, e che non possono esseredistinti da un percorso tecnico oltreché teorico indispensabile, senza il quale l’opera d’arte non potrebbe nascere. Certo esiste nell’arte contemporanea un diverso approccio, che vede nella realizzazione di un’opera non più l’atto finale di un complesso processo tecnico e creativo, bensì la messa in scena di un concetto che non necessariamente è legato ai materiali usati o alle conoscenze acquisite. Ma non è questo il caso di Paolo Cervi Kervischer.In primo luogo è necessaria una distinzione, secondo l’artista triestino, tra coloro che cercano costantemente una ‘verità’ nell’opera d’arte (che è poi una verità rispetto a se stessi) e coloro che, dopo aver trovato un percorso artistico personale, si fermano ai cliché. Di solito c’è un periodo fertile in cui il lavoro di un artista, appena imboccata la via che lo porterà nei pressi dell’arte, è ancora fresco e nuovo e originale. Ma, passato quel periodo, nulla gli garantisce di poter accedere nuovamente a quella stessa matrice creativa iniziale. E’ in quel momento di crisi che entra in gioco il metodo. Un metodo strettamente individuale che permette all’artista di ricreare in ogni circostanza quello stato creativo della ‘prima volta’ ormai perduto. E’ una via che è necessaria in qualsiasi campo artistico. Nel teatro, ad esempio, gli attori hanno bisogno di un ‘metodo’ per ricreare la stessa intensità, la stessa freschezza del debutto in ogni replica. Ma anche nella scienza (che si nutre quanto l’arte di un momento creativo, al di là delle formalità procedurali) esiste un metodo che sembra non aver nulla di artistico. Eppure se definiamo il metodo scientifico come la formulazione di ipotesi e la loro verifica mediante l’esperienza, non è forse questa la condizione privilegiata dell’artista nei confronti della sua opera? Ma in fondo è così anche nella vita quotidiana. Non potremmo vivere senza un metodo, tutto nostro, che ci permette di ritrovare un po’ di meraviglia nelle cose di ogni giorno. Solo che questo metodo è inconsapevole.Ed è così anche per l’artista: anche se non è pienamente consapevole di usare un metodo, a tutti gli effetti lo usa, eccome! Pensiamo a un pittore: si mette di fronte a una tela, con il pennello e i colori e dopo un po’ (quanto?) nasce l’opera d’arte. A questa immagine tradizionale e stereotipata dell’esperienza artistica si sovrappone il vissuto dell’artista, con le sue abitudini, sensazioni, emozioni. Con i suoi pensieri. Cosa fa l’artista prima di mettersi davanti alla tela? E durante? Quali sono i cerimoniali che lo portano a rimettere in gioco quella dimensione creativa che porterà al concepimento dell’opera? Insomma, riprendendo l’esempio dell’attore: in quale modo saprà ripetere quella ‘prima volta’ ormai perduta? Konstantin Stanislavskij, regista e attore russo di fine ‘800, nonché autore di un celebre ‘metodo’ teatrale che fu adottato oltreoceano dall’Actors Studio, scrisse che per ritrovare quella ‘prima volta’ l’attore doveva attingere alla propria memoria emotiva e infonderla al personaggio. Come? Ricreando le circostanze in cui l’emozione si era presentata.
Il pittore Paolo Cervi Kervischer si avvicina molto a quel metodo attoriale. Per bere alla sorgente creativa, ricrea le circostanze in cui questa sorgente si era palesata. ‘Ho bisogno del limite che la tela mi offre – dice – ma allo stesso tempo
devo sapere che posso andare oltre quel limite: per questo prima di iniziare a dipingere ho bisogno di tre tele, una vicina all’altra. Se il limite dato dalla prima tela non mi basta, le altre sapranno accogliere il mio desiderio di oltrepassare quel limite’. E’ un po’ come la sindrome da pagina bianca degli scrittori, quando si trovano davanti il foglio, anzi, per meglio dire, la schermata di computer vuota e non hanno la minima idea di quello che andranno a scrivere. Come racconta lo stesso Kervischer, che negli ultimi tempi si è dedicato anche alla poesia: ‘Mi accadeva qualcosa di simile a scuola, quando dovevo scrivere un tema. All’inizio non mi veniva in mente nulla e potevo stare anche un’ora lì davanti a quel foglio bianco. Poi iniziavo a scrivere qualsiasi cosa, senza un particolare criterio, e man mano che scrivevo il tema cominciava a prendere forma’. Da un confuso balbettìo iniziale all’opera d’arte: ingenuamente molti pensano che il cammino sia inverso, che l’opera d’arte sia già lì bell’e pronta e che all’artista non rimanga altro che dipingerla o scriverla. E invece no: l’artista ha, certo, un’idea, ma quest’idea prende forma durante il processo artistico, non prima. E’ il confronto con la tela vuota, con la pagina bianca che rende possibile l’atto. Il vuoto, il bianco sono spazi di accoglienza necessari all’espressione, proprio in quanto sono anche dei limiti ad essa.Ma in fondo, accade lo stesso per i processi vitali: l’embrione si forma sulle informazioni geniche, le quali però hanno bisogno di un contesto ambientale per esprimersi. Senza la cornice contestuale, come già diceva Gregory Bateson, non c’è possibilità di espressione. Non ci si esprime in astratto. Il contesto ambientale è la pagina bianca della natura. Ma è poi così bianca questa pagina? No, assolutamente. Il contesto ambientale è già pieno di differenze, ovvero di informazioni. La pagina è bianca, certo, ma chi dipinge o scrive è tutt’altro che ‘vuoto’. Lo sapeva bene Francis Bacon: per riuscire a oltrepassare il figurativo senza per questo naufragare nell’astrazione bisogna dipingere l’ovvio e poi cancellarlo. La distorsione così ottenuta sarà un’immagine che arriva direttamente allo stomaco di chi guarda. Nella logica della sensazione, l’immagine di Bacon equivale a quel grido angoscioso della celebre tela di Munch, solo che stavolta il grido è orrore allo stato puro. Dunque l’artista è già ‘pieno’: di informazioni, di desideri, di emozioni, di condizionamenti, di paure. Cosa fare allora? ‘Se il quadro contiene delle composizioni parziali che mi soddisfano, so già – racconta Kervischer – che dovrò toglierle. Per quanto siano ‘belle’, infatti, rendono l’opera incompleta. E non perché la totalità dell’immagine non sia armoniosa, ma proprio per la sensazione contraria, che abbia bisogno, cioè, di una disarmonia, di un disequilibrio, per essere portata a termine’. Via le immagini ‘armoniche’, ed ecco che il quadro ‘funziona’.
Non subito, però. ‘Perché l’opera lì fuori mi soddisfi a confronto con quella interiore – spiega l’artista triestino – è necessario che passi un po’ di tempo’. L’opera d’arte è completa, ma deve ancora sovrapporsi all’opera d’arte che l’artista sa di aver sempre posseduto, sin da quando ha iniziato a dipingerla. O meglio: quell’opera che ha posseduto l’artista e che gridava per uscire, per venire alla luce. Venire alla luce: una metafora splendida per la nascita di un essere umano, così come di un quadro. Venire alla luce del giorno, sottoporsi al colore e prendere vita. Prendere vita per rendere vita: al pittore, in primo luogo, che trova nell’opera uno specchio dove poter riconoscere se stesso e, al contempo, un luogo di trasformazione. ‘Nel quadro vedevo il cambiamento: dei colori sulla tela, di me stesso che dipingevo quei colori’. L’arte è un rapporto biunivoco in cui l’opera si trasforma assieme all’artista. L’artista cambia l’opera così come l’opera cambia l’artista. Ma l’opera rende vita anche a chi la guarda: se c’è qualità nell’opera, allora l’effetto specchio si ripresenterà anche allo spettatore del quadro (o al lettore del libro). E sarà insieme universale e individuale.
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